Bartolini Salimbeni: quando si dice che chi dorme non piglia pesci!


Torniamo a parlare di una famiglia importante di Firenze, questa volta con i Bartolini Salimbeni… che in realtà erano originari di Siena, proprio ai tempi in cui queste due città erano acerrime nemiche: durante le lotte tra Guelfi e Ghibellini nel XIII secolo. Il cognome allora era solo Salimbeni, e i suoi componenti, erano, di fatto, ghibellini: forti dei loro soldi di mercanti, poterono aiutare le truppe senesi ghibelline contro quelle guelfe di Firenze nella Battaglia di Montaperti (1260). Firenze, dopo la sconfitta cocente, diventerà ghibellina per quasi sei anni: si dovrà attendere la sconfitta di Manfredi di Sicilia a Benevento (1266), per ristabilire il potere guelfo. Ma questa è un’altra storia!


Torniamo alla nostra famiglia, che ben presto però si trasferì proprio a Firenze, per seguire le vie del commercio e della mercatura. Fu Bartolino Salimbeni a volersi spostare, e fu così che il cognome venne dapprima cambiato in Bartolini, per nascondere così la loro vera identità di ghibellini in territorio nemico, ma poi venne integrato da quello originale, e divenne così Bartolini Salimbeni.

Come altre famiglie ricche di Firenze, anch’essi contribuirono al patrimonio artistico della città, facendosi committenti di opere importanti: nel 1363 acquisirono il patronato di una cappella nella chiesa di Santa Trinita, e negli anni ’20 del ‘400 incaricarono Lorenzo Monaco di affrescarne le pareti con il ciclo delle Storie della Vergine. Lorenzo Monaco, al secolo Piero di Giovanni (1370-1425 ca.), era senese anch’egli, ed era un monaco camaldolese nel monastero fiorentino di Santa Maria degli Angeli. Fu anche un pittore importante, esponente del cosiddetto “tardogotico”, ovvero un artista che lavorava ancora secondo i dettami dello stile gotico, in un momento in cui Masaccio “educava” già Firenze alle novità rinascimentali. E gotico è lo stile di questi splendidi affreschi, come quello della pala d’altare tricuspidata dell’Annunciazione posta nella cappella, sempre di Lorenzo Monaco.

Circa una ventina d’anni dopo, Lionardo Bartolini Salimbeni commissionò a Paolo Uccello (Paolo di Dono, 1397-1475), importante artista che coniugava aspetti cortesi e fiabeschi del tardogotico con una vera e propria ossessione per la prospettiva rinascimentale, la realizzazione delle tre grandi pale che raccontano la vittoria dei fiorentini contro i senesi, alleati di Milano, nella Battaglia di San Romano del 1432. Le tre tavole, acquisite poi da Lorenzo il Magnifico, sono ora divise tra tre diversi musei: qui a Firenze, agli Uffizi, abbiamo l’episodio del “Disarcionamento di Bernardino della Ciarda”; alla National Gallery di Londra si trova la parte con “Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini”; infine al Louvre di Parigi “Intervento di Michele da Cotognola”. Lionardo aveva partecipato a questa battaglia, paradossalmente dalla parte di Firenze contro Siena.

Ma il loro nome a Firenze è legato particolarmente al loro palazzo, terminato dall’architetto Baccio d’Agnolo nel 1523, al centro di polemiche e aneddoti particolari.

Il palazzo, voluto da Giovanni Bartolini Salimbeni, sorge in piazza Santa Trinita, proprio di fronte alla chiesa che ospita la suddetta cappella, e con la sua facciata cinquecentesca si accompagna a quelle medievali e rinascimentali degli altri edifici sulla piazza. Questo palazzo costituisce un capolavoro dell’architettura cinquecentesca, con le sue linee classiche ed eleganti. Una novità per l’epoca, un moderno palazzo in pietra in “stile romano”, frutto della genialità di Baccio e dei suoi criteri innovativi: ma fu proprio tutta questa innovazione che non convinse affatto i fiorentini. Il palazzo fu molto criticato, per il suo aspetto squadrato, per i suoi timpani classici, per le statue nelle nicchie (non più presenti). E Baccio d’Agnolo, reduce da altre critiche cocenti da parte di Michelangelo che aveva definito “una gabbia per grilli” la sua decorazione del tamburo della cupola di Brunelleschi, si era evidentemente stufato, e fece scrivere sull’architrave sopra la porta di ingresso la frase in latino “carpere promptius quam imitari”, cioè “è più facile criticare che imitare”!

Ma sulla facciata del palazzo possiamo individuare anche altre scritte, questa volta in italiano, presenti sulle crociere delle finestre: si tratta del motto della famiglia “per non dormire”. Il tutto accompagnato da rilievi rappresentanti un mazzolino di tre papaveri da oppio. Perché tutti questi riferimenti al dormire? A spiegarlo è un aneddoto-leggenda, che racconta anche la fortuna di questa famiglia. Bisogna tornare di nuovo indietro, nel Medioevo, quando un Bartolini, mercante, era riuscito ad acquisire all’asta una fortunata partita di stoffe (o di spezie, vi sono diverse versioni). La merce faceva gola chiaramente a molti ricchi mercanti di Firenze, ma il Bartolini riuscì molto furbescamente a sbaragliare la concorrenza: la sera prima di tale asta, egli invitò tutti i concorrenti a una grande cena per festeggiare. I cibi e il vino però vennero “drogati” con dell’oppio, e così la mattina seguente, mentre tutti ancora se la dormivano della grossa, egli, solo e trionfante, andò ad accaparrarsi la merce a prezzo conveniente!

Il metodo è molto discutibile: diciamo che più che abilità fu scaltrezza, e probabilmente si tratta solo di una leggenda. Da questa storiella, e dal motto che è stato poi coniato, se ne trae comunque un messaggio, e cioè che per avere successo in affari bisogna essere sempre vigili e svegli! Sembra che tale motto sia piaciuto poi al poeta Gabriele d’Annunzio, che l’ha adottato anche come suo!